giovedì 31 dicembre 2009

Ardore

E' relativo contare i gradini
della Moschea del Re Vivente;
lo sono anche il gusto piccante,
l'appartenenza ed il prezzo
di un vecchio montone.

Relativo è l'aspetto
gordiano di un nodo,
come lo è l'odore del sale,
oppure il mio ardore
ed il buio rispetto al suo luogo.

venerdì 25 dicembre 2009

Buon Qualcosa a Qualcuno



Quando San Francesco De Gregori era ancora in sé scrisse questa canzone; ora è caduto nell'autocensura culturale, come altri poeti della sua generazione. Oppure si sentono sconfitti? Non hanno più nulla da dire? Va tutto bene?
San Francesco è anche molto caustico (alcuni dicono "stronzo"); quanto vorrei che leggesse, per poi insultarmi; sarebbe un segno di "esistenza in vita". Tutto sembra perduto. L'ignoranza dilaga e con essa la crudeltà, il razzismo, il qualunquismo. Tutti si occupano della scorza, nessuno assapora la polpa. La politica è da una parte volgarissima e dall'altra sterile. E... appunto...San Francesco va a X-Factor. Fortunatamente Battiato ha dichiarato che non ci andrebbe neppure dietro "invito" dei carabinieri.
Parafrasando Moretti: "Ve lo meritate Marco Castoldi!". ....E chi è?! E' primadonnadivastar Morgan.
Un mio saggio conoscente disse: "Se sei la Loren, mostrami le tette!"...
Almeno questa è passata, per quest'anno. 
Comunque... Per chi ha bisogno di auguri, questi sono i miei.
Si, sono agrodolci.

giovedì 24 dicembre 2009

Tartarughe

Quel tipo che porta sempre la giacca
e s’alza, si siede, si rialza
e allaccia, slaccia e riallaccia
fino a scucire il bottone centrale;
son magri quelli, che ossuti!
Son bianchi e scavati e a volte son gialli,
le mani non hanno nemmeno una ruga,
gli occhi cerchiati, le dita soavi,
ma le unghie dei piedi, celate al mondo,
ricordano solo la tartaruga.

Le formiche volanti


Nell’hotel governativo di Rangat l’aria era ferma e appiccicosa. Sembrava di attraversare camminando dell’olio vaporizzato; una sostanza oleosa e densa aderiva alla pelle lasciandoci preda di una pellicola soffocante.

La spoglia scrivania della reception era minacciata da gigantesche pale, che roteavano lentamente accompagnate da un cigolio d’attriti cronici, il che non avvalorava la mia teoria dell'atmosfera unta.
L’uomo ad accoglierci pareva un alieno rispetto agli altri locali: un indocinese, qualcosa del genere, i cui lineamenti erano stranieri in terra straniera. Questo ci univa. 
Spesso suonava il telefono e purtroppo non comprendevo la lingua: mi incuriosiva sapere i contenuti delle telefonate; l’hotel era semivuoto. Forse erano tentativi di prenotazione, ai quali veniva negato questo privilegio: soggiornare all’Hotel governativo.
Lo schioccare dei gechi scandiva il tempo, ma non riuscii a sentire una serie completa di sette, che, per la tradizione, dovrebbe portare fortuna.
Silenti vacche riposavano lungo la strada, un mite toro sorvegliava, alcuni cani di grossa taglia - nel buio – si confondevano coi vitelli più piccoli guadagnando in sacralità agli occhi di noi forestieri. Un forte profumo di samosa e patate masala pervadeva a folate il cortile; più a destra si notavano le caratteristiche baracche azzurre dei negozietti e delle gastronomie del luogo.
Nella stanza 106 era quasi impossibile rinfrescarsi: il rubinetto della doccia non si apriva. In compenso funzionava una seconda manopola, che comandava l’erogazione dell’acqua da un tubo tagliato a fil di muro, a due metri di altezza. L’acqua però non zampillava, si limitava a colare lungo le piastrelle, giallognole di sporco incrostatosi immediatamente al termine dell’inaugurazione dell’albergo, presieduta dall’Onorevole Barghawasabi Shavarangstamasita nel 1993.
Carnosi scarafaggi si aggiravano nella camera; entravano ed uscivano senza fatica, poiché la porta non arrivava al pavimento, lasciando un comodo passaggio per gl’innumerevoli insetti.
Da altre camere riecheggiavano distinti i sibili degl’insetticidi, seguiti dai tonfi delle blatte stecchite, che zampettavano velocemente nell’aria, avvelenate.
Di notte attraversammo il piccolo villaggio di pescatori e ci incamminammo sulla spiaggia a cercare tartarughe, ma trovammo soltanto uova divorate dai cani.
Profittammo allora della splendida stellata; ci sdraiammo sulla spiaggia e contammo le stelle cadenti. Ne passò una prepotente, la coda sfavillante di verde e arancione, con la sua luce e la scia rumorosa fece voltare anche chi fissava altrove.
In quel luogo lontano e avulso dal mio quotidiano, forse venni assalito dalle stelle. Incapsulato nel mio inconscio, pronto a ghermire, il malinconico dolore dall’alito romantico. Mi catturò il bisogno atavico di essere desiderato, da qualcuno, in qualche luogo; sentii la necessità di essere atteso – senza spasmodiche ansie – ma atteso; quel ruolo mi avrebbe anche sostenuto nel ritorno in Europa. Soltanto l’essere oggetto di desiderio avrebbe giustificato – in quegli istanti – la partenza.
Purtroppo dalle sconfinate zone dell’Anima, nessuno mi chiamò. Si udì soltanto un altro scroscio di cometa luminosa che non guardai, per non complicare la mia permanenza su quella spiaggia di tartarughe e di cani.
Il mio sforzo fu vanificato il giorno seguente, al risveglio. L’hotel era invaso da grosse formiche volanti. Si riunivano a ciuffi, parlottavano negli angoli dei muri scalcinati, tramavano. Tornato a casa seppi che negli stessi giorni un’identica invasione aveva interessato la Costa D’Avorio, dove un amico lavora, ma in quel di Rangat conoscere questa curiosa nota (forse scientifica) non mi avrebbe curato: le formiche volanti, in me, rievocano Garcia Marquez.

sabato 5 dicembre 2009

Errare è umano


Un centro commerciale noto nella mia zona ha come simbolo un elefante.

Ricordo che, anni fa, in quel formicaio inoperoso, mi soffermai davanti alla vetrina di un negozio che aveva gettato la spugna. Le vetrine erano oscurate dall’interno con una carta di un giallo iper-diafano, la cui “giallità”, che sfuggiva ai sensi, non poteva che venirmi suggerita platonicamente.
Al centro di questo manifesto oscurante spiccava l’elefante-logo e la descrizione: “errare è umano”.
Reduce dalle savane keniote, e, ben conscio del fatto che l’elefante – nel suo ambiente naturale – placidamente passeggia in linea retta in quella terra sterminata, all'apparenza senza uno scopo… Ebbene... Io non capivo.
Troppo semplice svincolare l’elefante dal motto commerciale; troppo umana l’accezione di “errare” relativa all’insuccesso. Pensai allora che il negozio si fosse trasferito, perché, come l’elefante, girovagare (errare) è umano. Questo pensiero fu forse un vago ricordo arcaico, perché considerare nei nostri tempi l'uomo come nomade e beato è un indubbio delirio onirico in stato di veglia.
Quando mi riportarono nel mondo reale fu una grande delusione constatare il palese fallimento del negozio.
Ora, lasciando perdere il mio analogico stato mentale, oggi parto per le Isole Andamane e spero di incontrare, come pare sia quotidiano, degli elefanti erranti sulle spiagge bianche e disabitate; spero anche di errare io stesso, perseverando nella mia accezione del verbo, cioè vagare senza meta.

Assalamualeikum.

martedì 1 dicembre 2009