Ricordo bene che
guardai il mio amico con un certo sussiego, quando giustificò il comportamento
del suo gatto con l’affermazione: “L’hanno castrato male…”.
Già, perché quel
gatto, malgrado sfornito da tempo di zebedei, con la calda stagione, insisteva
pervicacemente a miagolar sofferenza, se rinchiuso in casa, ad ogni lancinante
mugolio di qualche gatta.
A nulla valse il
mio tentativo di spiegare che i caratteri sessuali secondari bla bla bla bla… E
che, qualora fossero intervenuti tardi a potar la pianticella, Farinelli non avrebbe incontrato grande
fortuna.
E’ meraviglioso,
questo luogo comune, il “l’hanno castrato male…”; in che senso? Come? Lasciando
inavvertitamente qualche cellula dei testicoli? Oppure facendolo
distrattamente, fumando una sigaretta? Una canna? Sciorinando logore battute a
sfondo sessuale? Con una mano in tasca? Io proprio non capisco quel “male”, anche perché una
castrazione eseguita male mi rimanda unicamente alla morte dell’innocente
micio.
Tempo dopo, una
donna corpulenta e annoiata catturò e fece castrare il mio gatto, quando l’ignaro
felino contava già sette anni... Come castrare Farinelli intorno ai cinquanta…
grossomodo!
Lo fecero “male”,
appunto, perché tornò sanguinante dallo scroto, ma sopravvisse.
Lo fecero “male”, forse
aveva ragione il mio amico, perché ieri – al primo accenno di calore delle
gatte – il miciastro è sparito dopo cena, trascorrendo la notte fuori, come ai
tempi gloriosi della fertilità.
Lo fecero “male”, è
vero. “Male”, come tutte le cose realizzate fuori tempo.
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