lunedì 29 aprile 2013

Tutte le formiche del mondo


"E allora vide il bambino. Era una carcassa gonfia e inaridita, che tutte le formiche del mondo stavano trascinando laboriosamente verso le loro tane lungo il sentiero di pietre del giardino."
Tratto da "Cent'anni di solitudine" di G. G. Marquez.

Ieri mi sono soffermato sull'attenzione riposta dal grande Marquez nel regno animale; un'attenzione che non si cura della gerarchia filogenetica delle specie.
Si tratti di porci o pennuti, oppure ancora termiti e formiche, è costante la presenza simbiotica della Natura nel mondo magico-realista dello scrittore.
Significativo, a tale proposito, il fatto che sia la formica e non il giaguaro a portare via la carcassa dell'ultimo dei Buendia, il quale, maledetto, reca il segno dell'incesto: non una voglia o un'occidentale deformità, ma una semplice coda di porco.
Certo, l'altissimo Marquez è colombiano, impregnato per cui d'una Natura che la fa da padrona e che l'uomo - tuttora - invade. La formica, allora, non è l'intruso, concetto anch'esso squisitamente "nostro", avendo confinato la Natura fuori dagli spazi della nostra esistenza. Proprio ieri un'anziana Signora, incontrata in un negozio, mi ha confessato (peraltro con pervicacia) di avere il balcone inagibile, causa  una fila ordinata di formiche, aggiungendo di temerle quanto una pestilenza, concludendo con uno sconsolante: "Capitano tutte a me...".
Io stesso, pochi giorni fa, mi sono attardato ad osservare delle api che entravano in un piccolo foro del muro di mattoni pieni, che delimita il patio della casa dei miei genitori. Il mancato rispetto dei confini, da parte degli ammirevoli apidi non m'ha turbato. Le rimiravo trasognante, come se non potesse essere reale, tale finezza. Anche in me, perciò, scevro da sentimenti di ribrezzo, s'è destata la meraviglia per un semplice spaccato di Natura, cioè una reazione da essere avulso dall'ambiente naturale, un animale cementificato nell'animo. 
E' indubitabile che lo sguardo compenetrante di Marquez abbia, a monte, la regia d'una cultura "altra" rispetto alla nostra, per cui la formica trascina via l'ultimo della stirpe (lo riconduce alla terra come il fiume della Wolf), le termiti rodono le abitazioni, ineluttabilmente, ed il gallo, indomito pennuto che nei nostri luoghi gira crudo in campagna (come osservò Baudelaire) laggiù si cimenta in combattimenti all'ultimo sangue per diletto e azzardo degli uomini...
Qui, no. Qui è affatto diverso: il topo, la lucertola, la mosca, la formica... Esse sono bestie sozze, apportatrici di malanni, dalle abitudini malsane e disdicevoli, onde per cui la presenza d'un solo esemplare fra le mura domestiche è motivo d'allarme.
Li si eliminano, inoltre, senza nessuna lealtà: dell'ottimo veleno e via.
Fin da piccoli, ed è tremendo, veniamo allevati senza compassione verso certe bestiole. Da bambino possedevo un rudimentale fucile di legno, che permetteva di scagliare elastici contro le mosche, spiaccicandole contro i vetri delle finestre.
Questo ricordo illumina un particolare prima rimasto nell'ombra: non provavo pietà e neppure m'impressionava la salma dilaniata dell'insetto.
Sarei portato a concludere, senza soffermarmi troppo, che la mosca, non permettendo d'aprire un rapporto dialettico, dimostri la sua appartenenza ad una zona filogenetica "minore". In altre parole: la mosca non mi fa "le feste", quando rientro la sera e non s'accovaccia sulle mie gambe, mentre mi rincoglionisco dinnanzi alla televisione. A riprova della sua moschina inferiorità, i suoi atteggiamenti non cambiano, neppure a seguito di miei slanci affettuosi. Persino dei banali esperimenti pavloviani non mi riescono, con la mosca; può darsi che sbagli tecnica. Preciso che l'esistenza d'una mosca, in condizioni agevoli, toccherebbe i dieci giorni; il tempo per manifestare una passione, seppur sgraziatamente, ci sarebbe, ma... nulla.
Eppure, a mio modesto avviso, non è lo scodinzolare, od il ruggire, che conferisce al bestio la nobiltà.
E' il sangue, sono le viscere, sono i guaiti e gli sguardi atterriti. E' l'uomo stesso, in breve, proiettato sulla bestia, che fa destare la pietà nell'assassino.
A questa conclusione giungo per via degli animalisti, corrente di pensiero che non mi feconda, i quali non si guardano dal massacro compiuto quotidianamente camminando.
Qualcuno potrebbe farmi notare, essendo la levitazione interdetta al volgo, che non ci sia una soluzione possibile, apparentemente, ma ciò non mi convincerebbe.
Sono certo che, se le formiche lanciassero urla di dolore, udibili, se gli esoscheletri degli insetti si fratturassero con fragore, se ogni nostro passo sull'asfalto lasciasse visibili chiazzoline di sangue, se lo sguardo della mosca apparisse liquido e dolce quanto quello del San Bernardo e se mamma vespa imitasse Anna Magnani, nel tentativo di difendere i vespetti dal veleno... beh, allora sarebbe tutt'affatto diverso.
Nel bel mezzo della savana incontrai scarabei grossi come saponette.
Questi, se ribaltati a zampe all'aria, emettevano (ignoro come) una sorta di lamento acuto; con chissà quale archetto sollecitavano corde invisibili. 
Ebbene: questi esseri, che nella penombra, negli stessi luoghi, all'europeo suscitavano soltanto disgusto una volta schiacciati inavvertitamente, di giorno facevano inumidire gli occhi ai più, e, lanciando il loro stridore doloroso, venivano rispettati.

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