venerdì 21 novembre 2014

Ricordare




Rammento soltanto
quadri mutati.
La statale quando
fu senza rotatorie,
il mare ombroso
mentre lo fendevi,
la mia casa
con recondite croste
di fiori d’acacia
nelle grondaie.
Nemmeno un ricordo
avulso ci è dato d’avere.


Share

domenica 2 novembre 2014

Il treno per Cuneo





Qualche tempo fa vidi il film “The Lady - L'amore per la libertà”, lungometraggio di Luc Besson sulla vita di Aung San Suu Kyi; film a mio avviso ben fatto, ma di ciò poco importa, in quanto non è del film che voglio trattare.
Il generale Saw Maung, il dittatore birmano, si reca in un bugigattolo fatiscente, per consultare la sua abituale indovina.
Non rammento il dialogo fra i due  con esattezza, e neppure ho modo di leggerlo, ma, in sintesi, dopo aver consultato le carte l’indovina sentenzia che è giunto uno spirito in Birmania (lasciando intendere che sia uno di quelli cattivi) e, alla richiesta di come placarlo, risponde che solo la pace può scacciare detto spirito.
Il generale, dopo aver ringraziato con calore l’indovina, annuncia di voler indire libere elezioni democratiche.
Aung San Suu Kyi accetta di candidarsi e non c’è bisogno di attendere a lungo, per capire che tutto il paese è dalla sua parte.
Saw Maung, allora, oltre a cambiare posizione sulle libere elezioni, invia un sicario dall’indovina, che la fredda non senza prima ricordarle come non avesse previsto questo evento.
Sul radicamento della divinazione nelle società asiatiche, non c’è bisogno che ne tratti il sottoscritto; ad ogni modo, “Un indovino mi disse”, di Tiziano Terzani, è un libro che illustra molto bene questo rapporto, senza dover ricorrere a testi eccessivamente complicati, i quali – tuttavia – male non farebbero.
Facendo un balzo all’indietro (di duemilacinquecento anni circa), Creso, re dei Medi, si recò presso l’oracolo di Delfi, prima di affrontare il grande Ciro.
La Pizia, com’è aduso ogni indovino che si rispetti, sciorinò la sua ambigua sentenza: “Se Creso attraverserà il fiume Halys cadrà un grande impero”.
Fu così che Creso imprese la guerra certo della vittoria, ma il grande impero che cadde fu il suo.
I due aneddoti, così distanti fra loro, sono accomunati dall’impropria interpretazione d’una sentenza oracolare, che pare intravvedere, fra le fitte nebbie dei tempi, l’esito degli eventi, ma non rivelando i particolari, in quanto non richiesti.
Appare chiaro, insomma, che la povera indovina fatta uccidere dal generale Saw Maung avesse visto giusto, senza però dare un nome ed un cognome allo spirito malvagio che aleggiava nell’aria birmana: Saw Maung.
Di questi racconti è piena la storia e tuttora pieno è il mondo d’uomini che divinano, pratica oltremodo diffusa, nel nostro mondo di cultura da cassonetto.
Ciò che sfugge ai più, a prescindere dalla reale possibilità di divinare, è l’esistenza di un vademecum, antico quanto la terra, necessario per interrogare il futuro, o chi per esso possa rivelarne le pieghe.
Di questo fondamentale manualetto, ignorava l’esistenza pure Mario Paolo Berlinghieri, il quale – stizzito per il notevole ritardo accumulato dal treno – smaniava figurandosi di mettersi comodo sul convoglio per Cuneo; era il 1953.
Lo stato di agitazione che lo interessava, lo spinse ad estrarre i suoi personali strumenti di divinazione e ad interrogare il tempo, per conoscere se il treno sarebbe mai giunto in stazione.
Lontano da occhi compassionevoli, nella fetida latrina della stazione, alla domanda frettolosamente posta, cioè se il treno sarebbe mai arrivato, ricevette in responso un secco “si”, che non gli risparmiò l’attesa di sei ore, senza che uno – dico uno – degli otto treni passati, fosse quello che lui attendeva, per poi scoprire che avrebbe dovuto attendere il giorno dopo, a causa di un guasto imprecisato, annunciato durante la sua sosta nelle latrine.
Ciò che il manualetto celeberrimo gli avrebbe insegnato, sarebbe stato d’impratichirsi sulla logica, prima di tentare la via della previsione, per porre domande pertinenti.
La sua divinazione, infatti, riuscì alla perfezione: il treno arrivò, un treno e più d’uno, ma non quello per Cuneo. Alla sua domanda seguì la risposta corretta.


Share

martedì 14 ottobre 2014

Le trote immortali




Marinetti al mito
l'occhio strizzò
infarcendo le trote di noci
e passandole al fuoco,
le parò appresso con vesti 
intrecciate di rabbia e valore,
le rese immortali,
ne fece guizzanti titani.

Share

venerdì 3 ottobre 2014

Vuoto


[fonte

Publio Quinto Marcello
colla destra slacciò
il paludamento e vide
mozzato l’avambraccio
un giorno all'indietro
dal barbaro lesto.
Resse pur lo scudo,
la mano fantasma
ruppe mascelle e coppe
sollevò l’indomani,
poi scrisse mancino
che il vuoto contiene.

Share

venerdì 19 settembre 2014

Il mito dell'ascensore



Benché la mia cultura generale sia soltanto una sapiente spolverata, e ciò – gioco forza – sia lo spirito della mia scrittura, vi è uno sparutello gruppo di persone che mi manifesta stima, talvolta financo lasciandosi scappare paragoni spregiudicati, citando colossi i quali, per pudore, non nomino.
Di questo gruppuscolo di aficionados, qualcuno si spinge oltre la spontanea stima e domanda perché latiti, mi pungola e richiede che io partecipi con maggior puntiglio a questo caos (forse democriteo) che è lo scrivere anonimo, nell’oceano della rete.
Ebbene, sento oggi il bisogno di spiegare il mio ultimo sonnecchiare; che sia un fisiologico moto di peristalsi? Non so, ma non ne abbiate a male…
Allora: molti anni or sono, studente di chitarra classica, prendevo lezioni sul retro d’un negozio di strumenti musicali. In quel tempo, del quale nulla persiste, se non io e la chitarra, scribacchiavo le prime mitosi della mia poetica.
Tengo ad evidenziare che “il retro di qualcosa” è sempre luogo di rivelazioni, siano calcinacci dimenticati dopo remote ristrutturazioni, che ossa di gallina schifate dai moderni gatti sfamati ad aromi artificiali.
In quel negozio, in attesa del maestro, mi capitò per le mani un vecchio libello di non so chi: la trascrizione di un’intera intervista a De Gregori; preciso che, dato il caratteraccio del Francesco, il termine intervista è fuori luogo. 
Ebbene, San Francesco, tanto l’amavo da collocarlo fra le mie personali icone, raccontava il suo stile di scrittura dei testi, usando quale esempio (che io ricordi) la mirabile “Cercando un altro Egitto”, in cui si narra, Vi ricordo, come la mattina presto San Francesco venga chiamato dalla strada, pare che qualcuno lo voglia uccidere e lui, un po’ confuso, prenda tutto e “come San Giuseppe” si ritrovi a rotolare per le scale, cercando un altro Egitto.
Il Santo spiegò che ben poco gl’importava di essere compreso, o che il testo avesse un senso, ma che si dilettava ad accostare immagini le quali, a risultato finito, parevano formare una storia compiuta.
Una lacrima mi sfuggì, perché io stavo abbozzando un qualcosa di simile; mi sentii sorretto dal mio vate ed il mio vagito prese forza.
Da quell’involontario plauso del mio caro aedo nacque una ruvida  raccolta di poesie, seguita da una seconda ben più raffinata, in quanto l’esercizio paga sempre.
Le prime furono storie brufolose, da scariche ormonali, nelle quali consigliavo di “lasciare ai pianeti le rivoluzioni/per quanto io ami quelle autunnali” o me la pigliavo con Europa Radio, colpevole a mio dire di tenere un piede nel presente ed uno nel vuoto.
Fecero seguito poesie più delicate, intime e – qualcuno afferma – alchemiche; ecco. Qui, giunti all’alchemico, ho incontrato il vallo invalicabile.
Passai qualche anno fa, lungo la costa, davanti all’isola di Krk, il cui nome ricorda una frattura, ed una placida coltre nebbiosa la nascondeva; il ponte che la univa al continente infilzava una nuvola.
Questo accidente naturale mi colpì. Pensai di comprendere anche il mito di Avalon e mi produssi nel metallico e moderno, nonché scialbo, mito dell’ascensore.
Immagino allora un palazzo a più piani.
In ogni piano si parla una differente lingua e, forse, persino l’aspetto dei residenti è differente; io lo ignoro, in quanto non ho accesso ai piani (se non al primo) e neppure conosco le diverse lingue di questa babele.
L’unica mia possibilità, per conoscere i mondi a me proibiti, è quella di sfruttare il lift-boy, dotato di passepartout.
Egli mi ascolta, annota, sale di piano, guarda, chiede, traduce e mi riporta. Il punto focale della questione riguarda il linguaggio utilizzato dal caro lift-boy.
Egli non è poliglotta, appare anche privo di volontà. Egli usa una sorta d’esperanto matematico, le cui parole si fondono o si giustappongono a quelle di lingue sconosciute. Si miscelano, come parassiti sguazzano negli ambienti stranieri.
E’ il midollo matematico che conferisce proprietà trasformista alla lingua del ragazzetto.
Così, il mito termina qui; avevo avvisato che fosse scialbo.
Ora, posto che, senza linguaggio non c’è pensiero e senza pensiero non c’è espressione, si deve accettare il fatto: si scrive di ciò che si conosce, si ricerca sempre e solo di ciò che si conosce. La scienza così si muove in un apparente buio: si muove di un passo, dopo aver imparato cosa sia un passo.
Ragion per cui, concludo, siccome si ricerca l’ignoto in base al noto, lo scrivere a mio avviso procede a ondate, a maree.

Io scrivo quando il ragazzetto torna a piano terra, quando posso esprimere ciò che di nuovo ha scoperto.

venerdì 11 luglio 2014

Bucefalo




Osservavo con attenzione il veterinario, indaffarato nel redigere la prescrizione incomprensibile.
La grafia ricordava la strisciata di un cardiogramma. Comprendevo qualche lettera sparsa, leggendo il foglio al contrario, in quanto anche mio padre declinava la grafia verso tali tensioni elettriche.
Mentre un ostinato ronzio accompagnava la penna del medico, riflettevo sul fatto che il tempo (si, sempre lui) fosse la malattia suprema; non v’era dubbio in quei momenti.
E’ la sorgente dei malanni, in quanto scorrazza liberamente nei tre regni della Natura erodendo, scarnificando, sbriciolando, disseccando e polverizzando. La dimostrazione di potenza incontrastabile è la sua azione sul “quarto regno”, cioè quello costituito dalle opere realizzate dall’uomo, che attinge da vegetali e minerali, plasmando gli elementi e producendo enti altrimenti non esistenti.
I nistagmi degli occhi del veterinario m’indispettivano. Fissando quegl’iridi verdi acqua, così vanamente vistosi, seguivo l’accentuato tremore fisiologico, durante la lettura.
Mi rendevo conto che il tempo se ne sbatte della magnificenza della Cappella Sistina, o dell’imponenza della portaerei Washington; figuriamoci cosa possa preoccuparlo d’un bruscolino dell’universo, quale un’autovettura oppure un chiosco per gelati, o delle perfette viti, intorno alle quali s’impernia il sublime meccanismo di un orologio.
Il tempo, nel suo eterno rotolare (una sua frazione è sempre uguale alla precedente, quindi rotola grazie a due soli raggi) esercita la sua ontologica azione, con la pazienza che solo ad esso è concessa, poiché non risulta intaccato dal suo stesso agire.
Il disincanto fu totale, scoprendo che anche Bucefalo era soggetto al macinare dei secondi.
Bucefalo venne datato da un team di esperti (uno dei quali arrivato direttamente dalle Galapagos): si accordarono (lustro più, lustro meno) intorno ai 3.521 anni.
Ereditai Bucefalo da mio nonno, che la ebbe da suo padre e lui dal suo; così a ritroso, affondando nelle sabbie viscose del passato, fino a perderci nella storia persa, in quanto non scritta.
Bucefalo, quando mi venne affidato, aveva circa le dimensioni di un camper. Non aveva nome, ma io ebbi l’ardire, in quanto mi risulta un potere conferitoci, di deciderlo.
Optai per uno che potesse contentare il mio ego.
Anche la montatura degli occhiali del veterinario, che pareva (ironia!) in tartaruga, incorniciando pesantemente gli occhi, attirava la mia attenzione amplificando gli scatti dei bulbi oculari, i quali tuttavia parevano già rallentati, rispetto ad un'ora prima. 
Prova ulteriore della supremazia del tempo fra i flagelli venne a noi fornita (intendo alla mia stirpe) dall’apparentemente immoto tartarugo, del quale un veterinario illuminato rivelò l’imminente fine al mio trisavolo, senza addurre spiegazioni.
“E’ così!” sentenziò sicuro di sé il vanesio, alzando il dito indice destro, puntando verso un angolo del soffitto, lasciandosi sfuggire un lieve sorriso di sussiego.
Così fu, benché – interpreto ora – vi sono differenze fra il tempo della tartaruga e quello umano; il mio trisavolo (che scampò alle battaglie risorgimentali) l’ebbe da suo padre, ma il tartarugo, che all’epoca aveva le dimensioni di una capiente botte, scampò fino ai giorni nostri, non senza mostrare sottilissime incrinature nel carapace e, in generale, nella condotta dell’esistenza.
Le sue pause fra un passo e l’altro erano ormai estenuanti per il tempo umano, già allora, salvo che per i campioni mondiali di scacchi, il cui istante ha consistenza differente, rispetto al nostro, da sempre.
Alludeva (il veterinario ottocentesco) ad una misteriosa goccia, una soltanto, che dall’inizio di ogni cosa, ha potere di scavare la roccia e dunque si tradì: la goccia di per sé non ha potere alcuno, non quanto il susseguirsi di esse, nel tempo; inoltre: è nata prima la goccia o la roccia?
Per questo io, sconcertato e dubbioso, in tempi recenti, mi avventurai incoscientemente e discesi nella tartaruga.
Imboccando la cloaca (ragion per cui mi bardai di tutto punto) scesi lungo un budello a scalini, verso destra, e in lungo corridoio a ferro di cavallo, notai subito una rigogliosa boscaglia di muffe multicolori, da far perdere il senno agli alchimisti; fossi disceso dotato di falcetto d’oro, mirabili ingredienti da pozione avrei raccolto, in quel mondo che virava verso la dissoluzione.
Narrano le cronache, che il veterinario del mio trisavolo seguitava a blaterare banalità sull’ineluttabile, durante la mia discesa da speleologo, ma la sua voce probabilmente s’era già fatta ovattata da un secolo almeno, rimbombava sorda, fino a comprimersi in un grasso ticchettio confuso, per sparire dal novero dei miei stimoli.
Ebbi il tempo di udirlo evocare il paradosso dei gemelli, ma non ne compresi il motivo e forse fu uno scherzo della mia immaginazione, tenendo conto che l'uomo dell'ottocento non poteva conoscerlo.
Girovagando per condotti soffici ma resistenti, costretto a peripezie da contorsionista, ispezionai l’acido stomaco, l’amaro fegato e gli spugnosi polmoni, infine i reni e poi risalii, controllando ben bene la presenza d’infezioni sotto la lingua.
Ora, elencare tutto quanto vidi è complicato, ma tutto fu chiaro, per quanto mi concerne: il tempo, sempre e soltanto il tempo.
Incontrai, oltre alle muffe variegate, presenze filiformi e aggrovigliate, matasse confuse che mostravano una sorta di coscienza, penetrando pareti lise e sparendo nei tessuti circostanti con un rumore simile a quello prodotto dal risucchiare l’ultimo spaghetto del piatto.
Esseri curiosi, senza capo né coda, senza bocca né ano, decolorati, suggevano densi liquidi lattiginosi e contemporaneamente rilasciavano liquami borbottando, mentre altri, più panciuti e dotati d’evidenti fauci, industriosi consumavano lembi di tessuto, parimenti al bruco che s’osserva divorare (lento ma incessante) una foglia.
Il rene era gibboso, grosse papule rigonfie lo acconciavano, il colorito era stanco e lo sappiamo: sorella morte ha delle tonalità a suo uso esclusivo.
Innumerevoli cumuli di solidi geometrici (di sostanza a me ignota) giacevano ammonticchiati in ogni ansa disponibile; a intervalli regolari uno scroscio mi allarmava ed un rotolar di cubi ed ottaedri, dai vividi colori cangianti ma tutti venati di verde acceso, mi sfilava dinnanzi tracciando un lieve solco nella pavimentazione interna della bestia e lasciando sul tracciato un lieve fumo, pungente d’ustione.
Quando il tartarugo inspirava, le arterie s’ingrigivano pulsando; quale e quanta lordura aspirava la bestia, lordura che non si mostra alla vista e della quale lo stesso veterinario quotidianamente fa incetta, respirando (immaginavo, durante la mia assenza, di ritrovarlo vivo) incessantemente?
Risalii lungo la trachea, tutto era comprensibile, nitido lo svolgersi degli eventi.
Ripulito di tutto punto e ben profumato d’acqua di colonia, tornai al gabinetto del veterinario, per discutere di filosofia, ancor prima che di medicina.
Lo colsi immobile, nella posizione d’indicare un punto del soffitto, con le labbra irrigidite nel vocalizzo della “i”.
Un lieve pulviscolo si staccava dalla punta del suo indice, trascinato via da un soffio leggero.
Le falangette del medio e dell'anulare erano sparite.


lunedì 30 giugno 2014

Gabbiani





La nottata i gabbiani scendono
in strada e sgraziati zampettano,
calano i becchi come magli
su cicche sputate e mozziconi,
ingollano talora granaglie
cascate da pani integrali
o d’altri bisunti spuntini.

All’alba il sole serpeggia
dal mare fra i palazzi
e frammenta la notte,
tramenano i netturbini
e scalpicciano i primi tacchi,
decollano indolenti i gabbiani
offesi e volano a scortare
gl’assonnati pescherecci.

venerdì 16 maggio 2014

Una qualsiasi mattina



[fonte]


Una qualsiasi mattina, il nobile Ratteo Menzi, come di buona sua norma, si svegliò all'albeggiare. 
Galli cantavano di là della siepe, schiamazzavano nel borgo, cantavano di femmine e di combattimenti.
Ratteo fece tintinnar la campanella ed alla porta s’affacciò, celere ma soave, il domestico Draziano.
“Draziano, non è già in vigore la riforma Baudelaire?”, domandò Ratteo.
Draziano fissò la solita piastrella sbeccata, sulla quale poggiava un piede del letto, quello prossimo alla porta.
Il povero Draziano sbatté le palpebre, imprimendo un lieve movimento alla chioma appena scarmigliata.
"Dé! Gran Dio!", lo sollecitò l'incontenibile Ratteo, padrone suo. 
“No-non rammento, Ratteo…”, rispose Draziano balbettando ed accennando ad un inchino fuori luogo.
“La riforma Baudelaire”, lo incalzò Ratteo, già vispo come una donnola e facendogli il gesto di tirarsi su, “dispone che i galli crudi razzolino solo nelle campagne!”.
“Ah, si! Entra in vigore lunedì prossimo!”, ricordò Draziano rilassandosi finalmente in un inchino, per poi uscire, sgambettando verso le cucine, per dare ordine d’approntar la colazione.
Ratteo s’alzò e, immantinente, una fitta rodende si diramò dall’ombelico verso sinistra, scendendo lungo gl’intestini.
Lesto puntò la stanza da bagno, a passi brevi e fitti fitti, contraendo le natiche, ma lo sforzo nulla poté: anche quella mattina si riformò addosso.
  
Share

giovedì 15 maggio 2014

La leva del freno


 [fonte]

Fu una lauta cena: deliziosa faraona al porto, seguita o intervallata (ci fu tale libertà) da rollé di coniglio lardellato e uva bianca.
Di contorno gustose patate arrosto tagliate a dischetti: una cottura perfetta. 
Il formaggio (da me portato) fu un divino pecorino con tartufo.
Apparve infine la torta di compleanno, immancabile, non dopo aver spento tutte le luci di casa.
Una perfetta, nella sua semplicità, tiepida torta di mele, accompagnata da un eccellente gelato al fior di latte.
Dal centro geometrico della torta s’ergeva, in luogo di decine di candeline, un piccolo e variopinto candelotto alto una spanna (ricordava il bastone internazionale dei barbieri); un fuoco pirotecnico la cui fiamma, d’un biancore immacolato, sprizzava eccitata, liberando un fruscìo elettrico.
Il festeggiato fece mostra della sua condizione da ex fumatore e soffiò sul candelotto, per zittirlo.
La figlia scattò alcune foto, per immortalare il momento, ed il risultato fu curioso.
Questa fiamma artificiale, incrociando il getto d’aria espirato, rivelava la sua progettazione innaturale, cambiando direzione ad angolo retto, oppure interrompendosi e procedendo ad impulsi, generando segnali di luce di gusto marinàro. 
Ero l’unico invitato; il festeggiato, alla domanda della moglie, su cosa desiderasse avere in regalo, rispose “Carlo”.
Quella veste da regalo era inconsueta, ma la provai ed oggi posso dirla privilegiata; non comprende abusi di nessun tipo, né sessuali, né vagamente ludici, nessun impegno se non l’abbuffarsi in un ambiente intimo, con squisite cibarie ed un vino francese superbo. Per converso, l’incarnare un regalo, unicamente c’investe dell’onore d’essere considerati motivo di gioia e oggetto di ricordo (“Ricordo quel compleanno, quando mi regalarono te!” mi disse sospirando anni dopo; i suoi occhi scintillavano, puntando verso un apparente nulla).
Ciò nonostante, mentre il mio caro amico commosso abbracciava i due figli, distribuendo baci schioccanti, e la figura della moglie si stagliava nella penombra dietro di loro cingendoli tutti con braccia da madre (saggiava il gioioso quadretto con un sorriso grato e lasciava trapelare il suo plauso all'Altissimo, poiché “Si! E’ perfetto, tutto perfetto!”), il momento di felicità suscitò in me un pensiero tragico; un cupo finalismo intorpidì le mie acque.
Madre Natura, fredda ed assassina, spietata m’alitò sul collo; in un momento inopportuno mi rammentò il suo ingrato adoperarsi.
“Povero amico caro…”, pensai.
Ritornai alle nostre meste serate durante il servizio militare; lui guidava tenendo fra le gambe una bottiglia di Caldaro, ormai vuota; s’andava tristi e bolsi per la via che s’incunea tutt’oggi fra due caserme.
Ad entrambi i lati, alte mura e garitte che ingabbiavano stanchi e infreddoliti militari, mentre perdevano i loro giorni; le nubi dei loro respiri erano calde di vita e di grappe.
Fin d’allora e prima ancora (ché già le idee si deteriorano, anche per chi ne rifiuta l’esistenza) ci stavamo consumando, ma non di buon Caldaro e neppure di tisi o fulminante difterite, ma per silenzioso ed omicida intento della Natura, e punto!
Quel costante fermentare e ribollire, sotto la nostra pelle, che produce?
La sera in cui incarnai il regalo, venticinque anni dopo, ancora si percorreva la medesima discesa, chi più rapido e chi meno. Tutti i presenti tentennavano sempre più nello svolgersi dei giorni ed anche l'incedere spensierato dei giovani seguiva la medesima via: un vicolo cieco.
Perciò mi rattristai, nel vederlo aggrappato, caduco, alle gioie lecite e volatili, intanto che neppure il dubbio primo lo sfiorava, quello cioè dell’esistenza di una leva del freno, da cercare ovunque in lui e persino fuori di lui. 
Se la determinazione della fede non ti si addice, almeno hai urlato disperato il tuo dissenso? Hai tentato, tu, il tentatore?
Hai frugato dietro gli armadi? Nel retro della casa? In quella zona nascosta dei giardini, che in genere accoglie cianfrusaglie, come vecchi copertoni e teli di serre, oppure in solaio? Sebben banale, questo è luogo elettivo per ciò che si ricerca, nonché luogo metafisico per antonomasia... Di ciò non stiamo trattando?
In cantina, hai guardato bene? Hai spostato lo scaffale zeppo di bottiglie, fra cui ben tre Château Yquem Grand Cru del 1983? Dimmi, l'hai fatto? Ovviamente -  in questo caso – spero tu abbia agito con con particolare attenzione... 
Ed è mai possibile, amico mio, pensavo, che chi ti ami non possieda questa leva? 
L’hai squartata, lei, scostando gl’intestini? Le hai strappato la colonna vertebrale impugnandola dall’atlante, tirandola con forza verso di te? Hai sentito l’assordante stridore delle ruote del treno bloccate, quando si straziano d’attrito?
Hai guardato nelle prelibatezze culinarie che lei cucina? In mezzo ai maccheroni,  nei monconi di pajata o nelle quaglie, nei loro ventri? Hai sondato con delicatezza nello stracotto, in fondo alla pignatta, nella scaturigine del gusto, prima d'ingurgitare distratto la sacra chiave del tabernacolo, lì celata dal destino? 
Hai chiesto singhiozzando ai figli tuoi, immensamente giovani, d'indicarti la via? 
Dimmi, amico mio: hai fatto tutto ciò?
 

mercoledì 12 marzo 2014

I cubi verdi




Millant’anni fa, quando il veneficio del servizio militare stava volgendo al termine, iniziai a frequentare un gruppo di neo fricchettone, che all’epoca mi affascinavano non poco, per tutta una serie di ragioni immotivate.
Una sera, dopo aver ascoltato i loro vacui discorsi, presi parola e raccontai un’idiozia confacente, cioè descrissi il dramma di un certo “X”, il quale si risveglia in un luogo privo di riferimenti, colori e connotazioni spaziali. Una volta ripresosi, come un corpo che si risveglia dalla metempsicosi (e così citai Proust, ma non se ne accorsero), X non solo si accorse di essere circondato da cubi verdi fluttuanti e fluorescenti, ma di essere lui stesso siffatto.
Fu così, allora, che X apprese la sconcertante verità: X non era un essere umano, ma un cubo di gelatina verde. Tutto il suo vissuto era frutto della sua mente; probabilmente (tuttora non ne sono certo, in quanto non conoscevo e non conosco la fisiologia dei cubi di gelatina verdi) al momento della nascita un grave intoppo lo fece sprofondare in uno stato vegetativo.
Ora, abbandonando le neo fricchettone, la cui reazione positiva al mio racconto le qualificò spietatamente per ciò che erano, il povero X s’era sognato tutto.
Il parco giochi in Via Solari, il cane che mangiava il suo pongo per poi defecare in mille colori, il distributore di semi di zucca e la nonna imbacuccata in una sciarpa color corallo.
Le scampagnate coi genitori, a cercar fossili o funghi, i musei della scienza e l’enciclopedia di casa, con le sue agghiaccianti immagini anatomiche d’uomini scorticati in nome della conoscenza e quel San Sebastiano pluritrafitto, con lo sguardo diretto in alto a destra, da dove proveniva il fascio di luce, lo sceneggiato sugli Sforza ed il loro stesso castello.
Poi, questa immensa matassa d’irrealtà si gonfiava a dismisura, di pari passo col pieno risveglio del povero X; comparivano allora antiche civiltà ch’erano esistite altrove, di là dell’oceano mare, e la consapevolezza delle pagine riempite a descrizione di questi popoli perduti, acconciati con penne d’uccelli mai visti e dai nasi perforati con ossa di ispidi mustelidi, divoratori d’insetti coriacei e anelidi grassi come anaconde. Riaffiorava la consapevolezza della lingua perduta di questi selvaggi, al pari delle lingue straniere ch’esistono ma non si conoscono e in questa babele di cose e voci, s’affacciava il ricordo bambino del dispiacere nell’apprendere che Santa Klaus, al pari dei tappeti volanti e del Barone di Münchausen, era un’innocente menzogna per rallegrare i piccoli.
Altra menzogna fu quella delle presunte conseguenze mortali, una sparata della nonna, per aver ingoiato una pallina di stucco, durante l’apprendimento dell’uso della cerbottana e comparve pure la certezza che il dolore per la lunga fila di morti, dalla prozia paterna (che fumava sigarette strette e lunghe, tenendo un mignolo all’infuori e commentando in francese “il faut!”) ai popoli spazzati via dai cataclismi, fu un dolore vano, suscitato da eventi mai accaduti e che, forse, la razza dei cubi verdi gelatinosi nemmeno conosceva il dolore, imbevuta com’è d’un pneuma che veicola l’atarassia, e di questi concetti nemmeno conoscevano l’esistenza, in quanto fu soltanto X, nel suo lungo sonno, ad inventare la filosofia antica e le teorie contrapposte, sebbene non le avesse mai studiate e fossero rimaste incistate allo stadio larvale, come tenie nel carbonato di calcio (cosa siano gli elementi primi sarebbe un altro argomento monumentale), e gran parte delle velleità, che si consumano rotolando nella discesa del tempo, il quale non esiste nel mondo sospeso dei cubici gelatinosi.
Ebbene questo inaudito labirinto di realtà, completato dalla presenza dell’universo e, forse, di dimensioni parallele, dalle quali connaturate realtà ci scrutano, attraverso un velo puramente ideale, passati gli anni delle neo fricchettone, mi tormenta tuttora, come tormentava allora il povero X.
Negli anni, compreso che non esiste struttura del pensiero senza linguaggio, mi sono chiesto come poteva X comunicare coi suoi simili, senza aver passato i loro misteriosi stadi evolutivi e come potesse allora costruire un universo intero, senza cedere alla schiacciante realtà d’un caso democriteo favorevole.
Saltuariamente aggiungo un particolare dei ricordi del mio flaccido e verde alter ego; ieri sera, infatti, leggendo un racconto della Munro, ho aggiunto: “X non si capacitava del fatto d’essere stato rimbrottato, per aver pronunciato Munro alla francese e non all’inglese, cioè non comprendeva esattamente la ragione per cui un cognome canadese non andasse pronunciato nella lingua principale del paese, paese che – manco a dirlo – non aveva mai visitato; X non digeriva il fatto d’essersi documentato intorno a vicende storiche e colonialiste d’un mondo mai esistito”.
Beh, tutto qui.


Share